Nella società dei diritti non c’è più giustizia
22 Marzo 2004 |
Quando la Giustizia non è più tale, e quando il sistema giudiziario non riesce più a fornire risposte adeguate ai concreti problemi ed alle reali questioni che i cittadini rivolgono ad esso, è la stessa civiltà di un popolo che si avvia verso una deriva nella quale ogni punto di riferimento, ed anzitutto la certezza del diritto, rischiano di venire pericolosamente meno.
Perché la giustizia torni ad essere – almeno come appassionata tensione, e pur con tutti i limiti che caratterizzano ogni tentativo umano e dunque anche l’esercizio della giurisdizione – servizio al bene di un popolo, occorre, tra l’altro, che il “processo” torni ad essere luogo ove la verità dei fatti sottoposti al vaglio del giudice possa essere accertata in tempi ragionevoli e con la garanzia di un’autentica imparzialità ed equilibrio da parte di chi è chiamato a giudicare.
Le riforme in tema di giustizia realizzate dai diversi governi che si sono susseguiti dall’inizio della c.d. “era di Tangentopoli”, più che dettate da una simile preoccupazione e mosse dall’intento di procedere ad una rivisitazione organica e sistematica del processo, risultano avere quasi sempre prodotto parziali e contingenti risposte condizionate dal clima di scontro tra maggioranza politica e magistratura che da oltre un decennio lacera il nostro Paese.
Anche per tale ragione non si può che guardare con favore all’intesa finalmente raggiunta tra l’attuale maggioranza politica e l’organo rappresentativo della magistratura italiana: un’intesa che, al di là degli effetti positivi che immediatamente ne sono scaturiti (l’A.N.M. ha deciso di revocare lo sciopero dei magistrati e si prospetta ora la possibilità di approvare, con un vasto e trasversale consenso politico, una riforma dell’Ordinamento giudiziario che pare introdurre importanti e concreti elementi di novità), potrebbe ben rappresentare la premessa per una più ampia ed efficace volontà riformatrice futura.
Per converso ci paiono davvero incomprensibili le ragioni dello sciopero dei penalisti proclamato dall’Unione delle Camere Penali per i giorni dal 29 marzo al 3 aprile. Una scelta, quella delle Camere penali, che – proprio alla luce di quell’intesa tra politica e magistratura sulla quale poter fondare l’inizio di un dialogo tra tutte le componenti del sistema giudiziario, indispensabile per quei cambiamenti dei quali la Giustizia nel nostro Paese ha tanto bisogno – ci pare frutto di una posizione ideologica e preconcetta, certo non ispirata dal desiderio che la Giustizia possa finalmente funzionare.
Ancora una volta, purtroppo, non si perde l’occasione per affermare il proprio interesse di “parte”: viviamo nella società degli interressi individuali, corporativi e contrapposti, dove questa concezione del diritto, nel deserto di ogni altro riferimento, è diventata così onnipotente da valere più della persona e del bene comune. Nella società dei diritti è continuamente soffocato il desiderio di giustizia che alberga nel cuore dell’uomo. La giustizia, viceversa, è patrimonio di tutti e solo nel confronto e nel dialogo si trovano le forme più adeguate per la sua attuazione.
Noi vogliamo affermare che la possibilità di costruire una società più giusta parte dal riconoscimento che la persona e il bene comune vengono prima del diritto: le leggi servono a realizzare quella convivenza tra gli uomini che è espressione dell’io come esigenza di rapporto. Noi affermiamo questa concezione della giustizia attraverso il nostro lavoro e il nostro essere insieme associati al servizio del bene comune, sentendoci profondamente uniti a tutti coloro che avvertono il fascino e l’urgenza di questo compito storico.